Negli ultimi anni l’aumento dell’uso della tecnologia nei reati non informatici ha reso la digital forensics essenziale per le indagini. La crescita esponenziale dei dati digitali richiede alla Polizia Giudiziaria una formazione continua sugli accertamenti informatici. La Squadra Reati Informatici di Milano ha sviluppato una piattaforma per facilitare la condivisione delle conoscenze tra le forze dell’ordine. Tuttavia, è necessaria una piattaforma nazionale di intelligence digitale per una collaborazione più efficace.
Negli anni stiamo assistendo ad una crescita esponenziale delle indagini relative ai reati informatici, ma ancor più impressionante è l’aumento dell’informatica nei reati non informatici: in quest’epoca e in questa parte del mondo, la tecnologia è già così pervasiva da rendere improbabile la commissione di un reato (di qualsiasi reato) senza che in esso sia coinvolto a vario titolo un elemento di natura digitale, sia esso obiettivo, strumento o semplice “testimone” del reato.
I casi criminali che richiedono l’intervento di analisti esperti di digital forensics si estendono quindi a ogni tipo di delitto: anche l’ultimo degli spacciatori in strada ha in tasca un dispositivo digitale che conserva informazioni utili a fini di indagine o persino elementi probatori, come i contatti in rubrica o i messaggi scambiati, e anche il meno informatizzato dei criminali che commette il meno tecnologico dei reati non informatici può trovarsi immortalato nelle videoriprese, ovviamente digitali, di uno o più sistemi di videosorveglianza, che dovranno comunque essere sottoposti all’intervento di tecnici informatici specificamente competenti per l’estrazione dei dati e la loro analisi.
La quantità di dati digitali coinvolti in ogni indagine è quindi in vertiginoso aumento, e non servono doti di preveggenza per sapere che la tendenza proseguirà con crescita più esponenziale che lineare: lo sviluppo di tecnologie di storage rende disponibili sul mercato consumer dispositivi di memoria sempre più capienti, che gli utenti non tardano a riempire.
Al contempo anche il numero di dispositivi digitali “pro capite” è cresciuto e non si limita più a PC, notebook, pad, smartphone e book-reader, ma include già una serie di oggetti smart come occhiali, orologi, vestiti, elettrodomestici, automobili, apparati biomedicali o ad uso sportivo, sistemi di videosorveglianza ecc. che producono, conservano e trasmettono dati tra di loro e verso l’esterno. In più l’affermazione del paradigma cloud computing contribuisce a un’ulteriore incremento (e a una frammentaria dispersione geografica) della mole di dati esistenti.
È facile comprendere come, dal punto di vista delle indagini giudiziarie il fenomeno abbia un impatto impossibile da ignorare: raccogliere tutte le potenziali fonti di prova digitali, disperse su più fonti eterogenee, impone di saper operare con piena padronanza e cognizione di causa su tecnologie disparate.
È quindi divenuta imperativa per gli operatori di polizia la formazione permanente in materia di accertamenti informatici sui reati non informatici, che troppo spesso è lasciata alla libera iniziativa dell’operatore e rimane confinata nell’esperienza del singolo ufficio, mancando ad oggi un sistema di coordinamento interforze per lo scambio del know-how acquisito in fase di analisi:
Il proverbiale poliziotto del Commissariato di Voghera potrebbe infatti trovarsi nella necessità di estrarre dati da un cellulare bloccato ed essere costretto a inventarsi faticosamente una procedura ad hoc senza sapere che un anno prima un carabiniere del RACIS di Roma o un agente dell’ufficio dello Sceriffo in una lontana contea dell’Oregon hanno affrontato lo stesso problema e hanno già elaborato una brillante soluzione, che però è andata oggettivamente dispersa per l’assenza di scambi nazionali e internazionali tra law enforcement.
Il problema, ovviamente, non è tecnologico ma è del tutto umano: è l’assenza di modelli organizzativi improntati alla collaborazione che ostacola il diffondersi della conoscenza, mentre di certo non mancherebbero gli strumenti tecnologici in grado di trasferire, preservare e rendere accessibili le informazioni.
Con queste premesse, alla fine del 2013 la Squadra Reati Informatici della Procura di Milano ha predisposto una versione rinnovata del proprio sito www.pginformatica-mi.it, il cui accesso è strettamente riservato a Polizia Giudiziaria e Magistratura.
L’intento principale del sito è di confermarsi come punto di riferimento per la Polizia Giudiziaria che si trova nella necessità di dover operare accertamenti informatici anche per i reati non informatici, interfacciarsi con provider italiani ed esteri, svolgere indagini che coinvolgono apparati e infrastrutture informatiche e analizzare informazioni digitali.
La piattaforma adottata è stata scelta con lo scopo di veicolare formazione a distanza e incoraggiare forme collaborative di condivisione delle conoscenze e delle tecniche operative sviluppate nel settore.
All’interno del sito sono già stati implementati servizi come:
Il sito conta al momento quasi quattromila iscritti, appartenenti prevalentemente a Carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza, ma con presenze significative anche di polizie locali e magistratura, per cui si può dire che abbia raccolto un discreto consenso, ma il traguardo è ancora lontano: i futuri sviluppi del sito sono infatti orientati a trasformarlo in una piattaforma nazionale di intelligence dedicata alla digital forensics, al fine di consentire una più efficace, efficiente e precisa disseminazione delle informazioni utili e rilevanti per gli operatori.
Un buon modello per una simile piattaforma dovrebbe articolarsi in quattro parti:
A cura di Davide Gabrini, Squadra Reati Informatici, Procura della Repubblica di Milano
Articolo pubblicato sulla rivista ICT Security – Luglio/Agosto 2015
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